Tra Allusione e Illusione

Nella pittura di ROSSELLA RAMANZINI ogni immagine contiene sempre molte immagini: è una struttura plurima, un organismo elastico, aperto, multiforme. Come in un testo di Borges ogni elemento di questo immenso, sfuggente edificio può essere una porta d´entrata: da qualsiasi frammento (sagoma, ricamo o carta da gioco che sia) si scruta e si percorre potenzialmente l´intero. Ma è lì la trappola visiva: nel fatto che il tutto coincide con la parte, che la completezza è costruita dalla parzialità, come se si trattasse di un paradossale puzzle. RAMANZINI però non si limita a mostrarci i pezzi (o le pedine) del suo ingranaggio, ma ci coinvolge nel suo funzionamento, ci trascina nella sua azione. Così il nostro occhio fa esperienza di quella che il filosofo Merleau-Ponty chiama “l´enigma della visione”. “Sarebbe ben difficile dire dove è il quadro che sto guardando – egli scrive -. Giacché non lo guardo come si guarda una cosa, non lo fisso là dove si trova, il mio sguardo erra in lui come nei nimbi dell´Essere. Più che vedere il quadro, io vedo secondo il quadro o con esso”. E´ l´immagine che ci fa segno, la composizione che ci guida, il colore che ci fa vedere. Per RAMANZINI l´arte non è più un oggetto, ma un processo e la percezione non è passiva, ma attiva. Per lei non è importante arrivare alla fine della corsa (alla definizione della forma), quanto fare l´esperienza della corsa (rimanere nella congettura della forma). Se osserviamo, ad esempio l´opera dal titolo Coi cavalli ti trastulli ci troviamo di fronte ad un ritmo di simboli, di silhouette, di elementi decorativi che s´incastrano tra di loro dando luogo a figure illusorie come quelle di Rubin. E´ un infinito vorticare di saperi visivi, una migrazione o deriva di senso, un contagio di punti di vista. La sagoma del cavallo è anche una carta da parati, l´allusione al gioco degli scacchi è anche un richiamo al mitico uomo con bombetta di Magritte. Pare quasi che l´artista si concentri su quella che è la potenza associativa delle immagini, che dà come riscontro la plausibilità dell´assurdo, l´imprevedibilità del luogo comune, la precarietà di ciò che può sembrare mitico (com´è, appunto, il simbolo).

Non si pensi però agli impeccabili giochi mentali di Giulio Paolini, anch´essi fatti di continue connessioni, rimandi, confronti visivi. In Paolini l´arte suggerisce una sospesa interrogazione sul “perchè” dell´immagine, in RAMANZINI invece fa prospettiva sul “come”; in Paolini l´opera è tutta ripiegata su se stessa e sull´analisi delle proprie strutture interne, in RAMANZINI è tutta “estroflessa”: è un modo per “orientare disorientandoci”, per portarci alla conoscenza attraverso la perdita di conoscenza, come se fossimo dentro un giallo o un labirinto. Tutto è mostrato, illustrato, ma la soluzione sta oltre le apparenze. Possiamo chiamarlo messaggio alternativo, scenario irriverente? Quello che è certo è che l´artista mette in campo tutto l´armamentario strategico perchè appaia proprio così: specchi, raddoppiamenti, alternanze di positivo e negativo, rovesciamenti di ruolo, ecc. Tutto concorre a rendere il quadro una sorta di “azione teatrale” o anche di mondo visto “sub specie ludi”. Perfino le soluzioni tecniche presentano qualcosa di giocoso, simile a quello che fa un bambino quando tenta di costruire un´immagine con i suoi stampini. Solo che lui cerca di mettere ordine ai suoi sogni o ai suoi impulsi. Ramanzini al contrario fa uso di matrici tagliate a mano perchè i sogni trovino la loro libertà. La sua è un´opera ad incastro, fatta di tanti tasselli che si fondono e si diffondono sempre a caccia di relazioni improbabili, di incontri apparentemente fortuiti. E´ l´estetica del “come se”, quella del tromp-l´oeil per intenderci, che aggiunge al fascino formale della pittura il fascino spirituale dell´inganno, della mistificazione dei sensi. Basta sottrarre una dimensione agli oggetti e alle figure reali (quella cioè della profondità) per aggiungerne un´altra alla loro magica presenza, alla loro perfezione irreale: un po´ come accade in Flatland di Edwin A. Abbot: un luogo a due dimensioni, totalmente piatto, abitato da figure appena tracciate su di un pavimento eternamente illuminato. Un luogo in cui si verificano le imprese più folli, si sovvertono le leggi di gravità, si infrangono tutte le coordinate spazio-temporali, ma anche un luogo in cui vigono rigorosi ordini matematici, precise regole geometriche. Anche i quadri di Ramanzini, se vogliamo, sono “capolavori” di illusionismo prospettico. Le sue leggi sono il taglio, l´inesorabilità della linea di contorno, la distribuzione dei piani. Ma i suoi sviluppi poi sono simili a quelli adottati da Matisse nei suoi Papiers découpes: sono tentativi di “superare l´eterno conflitto tra disegno e colore”, disegnando direttamente nel colore e introducendo in continuazione accostamenti, incastri, sovrapposizioni. In questo modo lei riesce a massimizzare due fonti di energia: la modulazione degli sfondi neutri (o perfino bianchi) e la saturazione elettrizzante del colore.

Solo che le figure rimangono inesorabilmente piatte, pure sagome che possono ricordare i manichini (ma senza metafisicherie ambigue). L´artista allora le riveste con tanti elementi che hanno a che fare con il gioco: “semi” delle carte, puri arabeschi, birilli, pezzi degli scacchi. A volte si tratta addirittura di giochi formati da altri giochi o di giochi che piovono dall´alto, come in Golconde di Magritte. Ma non c´è nessuna intenzione di fare un discorso sul divertimento o sullo spazio (sulla distanza) che il gioco ci fa guadagnare rispetto a noi stessi e rispetto alla realtà che normalmente viviamo, anche se dei cerchi, pari a lenti di cannocchiale, potrebbero farci pensare il contrario. Il gioco qui casomai è inteso nella sua possibilità di produrre uno squilibrio, un´incertezza, un rischio, una finzione visiva. Così ci accorgiamo che nella “realtà del giocare” è essenzialmente il proprio io che viene messo in gioco. Siamo su un altro mondo, su un´altra scena (forse su altro palcoscenico, dato che i supporti dei dipinti sono simbolicamente di legno).

Ma alla fine di questa recita, di questo va e vieni tra realtà ed emblema, sogno e miraggio, immagine e racconto, si ha la sensazione di trovarsi dentro gli statuti dell´”ornamento”. Un ornamento non inteso però come mera opzionalità o esornatività decorativa, ma come sonda che interroga e mette in questione alcune delle nostre secolari convinzioni sulle forme dell´arte. Già il Salmo 33 recita: “Il Signore creò col soffio l´ornamento dei cieli”. Ecco, la “pittura decorativa” di RAMANZINI slitta via da ogni funzionalità e si colloca nel dispendio inutile, nell´ulteriorità del dono. Il suo ornamento è come se non avesse né firma né autore, né maestro, né aura. Non racconta niente – non gesta, non imprese, non fedi – racconta solo se stesso con i suoi labirintici intrecci e la sua grazia astratta (e provocatoria).

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Luigi Meneghelli
Critico d´arte e Curatore
Collabora con FlashArt

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